Verso un nuovo, possibile, bersaglio terapeutico per l’autismo

Grazie a un nuovo modello che ricapitola molti sintomi della condizione, il gruppo di Chiara Verpelli dell'Istituto di Neuroscienze del CNR ha chiarito alcuni dettagli molecolari alla base del suo sviluppo, identificando un possibile bersaglio terapeutico. Le informazioni raccolte potrebbero rivelarsi utili per la sindrome di Phelan McDermid.

Conoscere i meccanismi molecolari alla base di una malattia genetica rara – e non solo – è in genere condizione necessaria per mettere a punto nuove terapie. D'altra parte, per arrivare a conoscere bene questi meccanismi è in genere condizione necessaria disporre di modelli adeguati della malattia stessa, per poterla studiare in condizioni accessibili. Va proprio in questa direzione il risultato del lavoro del gruppo di ricerca guidato da Chiara Verpelli e Carlo Sala dell'Istituto di Neuroscienze del CNR di Milano, che in un articolo scientifico pubblicato sulla rivista Molecular Psichiatry ha descritto un nuovo modello animale dell'autismo in forma sindromica, caratterizzato non solo da difficoltà nell'interazione sociale e anomalie comportamentali, ma anche da disturbi cognitivi e motori.

Grazie a questo modello, i ricercatori hanno potuto descrivere i vari elementi di una via molecolare coinvolta nello sviluppo della condizione, identificando un nuovo bersaglio terapeutico. Infine hanno messo alla prova, ottenendo risultati positivi e incoraggianti, una molecola diretta proprio contro questo bersaglio, che ora sono pronti a testare in un modello della sindrome di Phelan McDermid, malattia genetica rara di cui Chiara Verpelli si occupa grazie a un finanziamento di Fondazione Telethon.

Tutto ruota intorno a una famiglia di geni che costituiscono da tempo l'oggetto dell'attenzione del gruppo di Verpelli: i geni della famiglia Shank.

“Sappiamo – spiega la ricercatrice – che Shank1, Shank2 e Shank3 codificano per proteine essenziali per lo sviluppo e la formazione delle sinapsi, le strutture che consentono la comunicazione tra le cellule nervose, e che mutazioni a carico di questi geni sono state trovate in pazienti con autismo e disabilità intellettiva”. Esistono già modelli animali caratterizzati da alterazioni di singoli geni Shank, che tuttavia non sono in grado di ricapitolare l'intero spettro di sintomi dell'autismo sindromico. Verpelli e colleghi hanno dunque provato a inattivare contemporaneamente due di questi geni – Shank 1 e Shank 3 – ottenendo per la prima volta un modello animale che riassume l'insieme dei sintomi e cioè ridotta socialità, comportamento ripetitivo, disfunzioni cognitive e motorie.

“Abbiamo osservato che, nel nostro modello, questi sintomi sono associati ad anomalie funzionali e morfologiche di alcune strutture cerebrali durante lo sviluppo nervoso e in particolare ad alterazioni di una via molecolare di comunicazione tra cellule nervose nella quale sono coinvolti, tra altri elementi, i recettori nicotinici, così chiamati perché hanno una particolare affinità anche per la nicotina”. Da qui l'idea di valutare l'effetto di un metabolita della nicotina, la cotinina, su queste alterazioni molecolari e in ultima analisi sui sintomi. I risultati sono stati decisamente incoraggianti, con un miglioramento delle funzionalità cognitive e comportamentali degli animali trattati.

“Sono risultati che abbiamo accolto con entusiasmo non solo perché confermano l’importanza delle proteine Shank durante lo sviluppo cerebrale post-natale, ma anche perché suggeriscono che la cotinina possa rappresentare un nuovo approccio terapeutico per i pazienti affetti da autismo sindromico” commenta Verpelli. Precisando che naturalmente non si riferisce a una terapia risolutiva, ma a un tassello terapeutico in più per migliorare la qualità di vita di questi pazienti.

Non solo: poiché Shank3 è anche il gene principalmente coinvolto nella sindrome di Phelan McDermid, tra i prossimi obiettivi della ricercatrice c'è anche quello di testare la cotinina in un modello della malattia, per verificare se anche in questo caso possa aiutare a migliorare alcuni sintomi. “Per quanto la strada da percorrere sia ancora lunga – conclude – un buon punto di partenza è dato dal fatto che la cotinina, già ipotizzata per alcune sperimentazioni cliniche e, a differenza della nicotina non provoca nell'essere umano problemi di dipendenza o effetti collaterali a carico del sistema cardiovascolare”.

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