Il rischio zero non esiste ma la possibilità di anomalie cromosomiche aumenta per la donna oltre i 35 anni e anche l’età paterna avanzata porta dei rischi.

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Quando una coppia aspetta un bambino, il primo desiderio è che sia sano. È un desiderio naturale e legittimo e nella grande maggioranza dei casi viene esaudito. Non in tutti, però, come sanno bene i genitori di bambini nati con malattie genetiche rare. Alcuni si trovano ad affrontare condizioni che interessano una o entrambe le famiglie di origine da generazioni, anche se non sempre ce n’è consapevolezza.

Per altri, invece, la notizia della malattia del figlio arriva del tutto inaspettata. «In effetti, il rischio zero per le malattie genetiche non esiste e non può esistere, per la nostra stessa natura» afferma Vincenzo Nigro, professore di genetica medica all’Università Luigi Vanvitelli di Napoli e responsabile del Programma malattie senza diagnosi dell’Istituto Telethon di Genetica e Medicina (Tigem) di Pozzuoli.

Fatti per mutare

Le malattie genetiche sono causate da mutazioni, cioè alterazioni, del nostro materiale genetico. Le mutazioni possono essere di diverso tipo e più o meno estese: a volte, per esempio, l’anomalia responsabile di una malattia riguarda interi cromosomi, come nel caso della sindrome di Down, causata dalla presenza di un cromosoma in più.

Altre volte, tutto dipende dal cambiamento di una singola lettera nella sequenza di un gene. «Se pensiamo alle malattie genetiche, le mutazioni rappresentano ovviamente qualcosa di negativo, ma in generale non è detto che lo siano» spiega Nigro. «Anzi: proprio le mutazioni sono alla base della variabilità degli individui ed è questa variabilità che permette agli organismi di adattarsi e sopravvivere anche quando le condizioni ambientali cambiano».

In questo senso, costituiscono uno strumento fondamentale dell’evoluzione e numeri ne confermano l’importanza. «Ogni volta che si sequenzia un genoma umano, cioè si legge per intero la sua sequenza di Dna, si trovano circa quattro milioni di differenze rispetto al genoma umano di riferimento» ricorda il professore. «Molte saranno innocue e alcune magari positive, ma non tutte. Il rovescio della medaglia è che ciascuno di noi ha varianti genetiche potenzialmente patologiche, anche se non tutte daranno luogo a una malattia, perché entrano in gioco anche altri fattori».

Il rischio dei portatori

È quello che succede per esempio quando un individuo è portatore sano di una malattia genetica. «Significa che possiede una sola copia mutata del gene responsabile della malattia, che però si manifesta solo quando entrambe le copie del gene sono mutate. Ricordiamo infatti che nella grande maggioranza dei casi i geni sono presenti in due copie nell’organismo».

Il portatore non manifesta sintomi significativi, ma l’incontro con un altro portatore porta a un rischio molto elevato che i figli manifestino la malattia. «Poiché parliamo di condizioni rare, la probabilità che due futuri genitori siano entrambi portatori della stessa malattia è ridotta, a meno che non siano consanguinei: in questo caso aumenta molto».

Per conoscere il proprio rischio riproduttivo rispetto a queste malattie, una coppia può effettuare un test chiamato test del portatore: un’analisi del Dna che stima il rischio di essere portatori di mutazioni responsabili di alcune tra le malattie genetiche più comuni come talassemia, atrofia muscolare spinale (Sma), fibrosi cistica.

Lo stesso test può individuare anche il rischio della donna di essere portatrice di malattie trasmissibili ai soli figli maschi, come distrofia di Duchenne ed emofilia. «Non è offerto dal servizio sanitario nazionale, ma è tra i pochi test commerciali che possono essere utili, se affiancato a consulenza genetica prima e dopo l’esecuzione» commenta Nigro, che è invece estremamente critico sui test che prevedono l’analisi a tappeto del genoma senza una consulenza genetica. «Il rischio è che identifichino varianti di cui poi non è possibile interpretare il significato, lasciando la coppia in preda all’ansia».

Il fattore età

Oltre alla consanguineità, altri fattori aumentano il rischio di trasmettere ai figli malattie genetiche, a partire dall’età. Gli studi dicono che dopo i trent’anni il livello di mutazioni nelle cellule riproduttive (ovociti e spermatozoi) sale e che questa crescita accelera anno dopo anno. «È ben noto l’aumento di rischio di anomalie dei cromosomi quando la donna ha più di 35 anni, ma anche l’età paterna conta» afferma Nigro. «Con il passare degli anni, infatti, aumenta la percentuale di spermatozoi con mutazioni casuali e imprevedibili che possono provocare malattie. Lo vediamo chiaramente nell’ambito del Programma malattie senza diagnosi, che mira proprio a identificare la causa di malattie ancora sconosciute. Il 70% delle malattie che diagnostichiamo nel programma è causato da nuove mutazioni nella linea riproduttiva maschile».

È impossibile sapere prima della gravidanza qual è il rischio di una coppia di avere un figlio con queste mutazioni, perché riguardano le singole cellule riproduttive. Alcuni test, però, come il bi-test e l’analisi del Dna fetale nel sangue materno (NIPT), stimano il rischio di anomalie cromosomiche nel feto, mentre test invasivi come amniocentesi e villocentesi permettono di diagnosticarle direttamente.

Il fattore familiarità

Il rischio aumenta anche quando ci sono altri casi in famiglia, perché il futuro genitore potrebbe essere portatore di una mutazione in grado di provocare una malattia genetica.

È quello che succede nel caso di malattie come rene policistico o sindrome di Marfan, per le quali un genitore con la mutazione (e quindi malato) ha una probabilità su due di trasmettere la malattia ai figli, o per malattie come emofilia, distrofia di Duchenne o sindrome dell’X fragile, causate dalla mutazione di geni presenti sul cromosoma X e trasmesse ai figli maschi da madri che ne sono in genere portatrici sane. «In questi casi è importante poter fare un’analisi molto accurata della situazione familiare, per poter indirizzare la diagnosi nel modo più preciso possibile» spiega Nigro. «Individuata la possibile causa della malattia ricorrente, infatti, il futuro genitore può eseguire test genetici specifici per determinare il suo rischio di trasmissione. Naturalmente, rimane fondamentale la consulenza genetica per la coppia prima e dopo il test».

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