Sindrome Kabuki: il Tigem coinvolto in uno studio dell’Università di Trento

La ricerca, coordinata dall’Università di Trento e a cui hanno contribuito anche i ricercatori dell’Istituto Telethon di Pozzuoli, ha ricreato per la prima volta la condizione patologica in provetta e ha capito cosa accada nel nucleo delle cellule e cosa ostacoli la formazione di cartilagini e ossa.

Ritardo nella crescita, anomalie cranio-facciali, deficit cognitivo e, spesso, sordità e cardiopatie: si manifesta così la sindrome Kabuki, una malattia genetica rara che ha un’incidenza di un caso ogni 30 mila nati, di cui si è appena conclusa la giornata mondiale di sensibilizzazione.

Da tempo se ne conosce la causa principale: mutazioni del gene KMT2D, deputato alla codifica di una proteina coinvolta nella regolazione della cromatina, che è il complesso di proteine e acidi nucleici contenuto nelle cellule. La ricerca deve ancora fare tanta strada, però, per individuare nuovi approcci terapeutici per le persone che ne sono affette.

Un passo avanti in questa direzione l’ha compiuto un team italiano, che coinvolge competenze biologiche, matematiche, fisiche, e genetiche di varie realtà scientifiche. La ricerca è stata infatti sviluppata al dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata Cibio dell’Università di Trento, con il contributo dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit), l’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli, l’Università di Napoli Federico II, l’Istituto di calcolo e reti ad alte prestazioni del Consiglio nazionale delle ricerche di Napoli (Cnr-Icar) e l’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Il progetto era iniziato alla Fondazione Istituto nazionale di genetica molecolare (Ingm) Romeo ed Enrica Invernizzi di Milano.

Lo studio apre nuove prospettive nel campo delle malattie genetiche rare perché è riuscito a individuare come il nucleo delle cellule sia alterato nella struttura e nelle proprietà meccaniche. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista scientifica “Nature Genetics”.

Alessio Zippo, alla guida del team che ha concepito lo studio, spiega: «Il nostro gruppo di ricerca del Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell’Università di Trento per la prima volta ha riprodotto l’insorgenza della sindrome Kabuki in laboratorio. Per farlo abbiamo utilizzato cellule staminali umane sane e vi abbiamo introdotto la mutazione genica che ritroviamo nelle cellule dei pazienti. Con tecnologie all’avanguardia abbiamo visto che il nucleo della cellula è malformato a causa di un alterato impacchettamento della cromatina».

Dallo studio emerge come la difficoltosa formazione di cartilagini e ossa derivi dall’incapacità delle cellule di rispondere ai segnali meccanici che normalmente ne guidano il processo. «Abbiamo individuato e testato una terapia che ristabilisce le proprietà delle cellule affette dalla mutazione, sia in vitro sia in vivo. Si tratta dell’inibitore di ATR, una proteina nucleare che funge da sensore molecolare (meccano-sensore) in risposta agli stimoli meccanici del nucleo». In particolare, ai ricercatori del Tigem-Università Federico II di Napoli coinvolti nello studio - Ivan Conte, Carmine Settembre, Daniela Intartaglia - si deve lo sviluppo del primo modello sperimentale della sindrome Kabuki in un piccolo pesce, il Medaka fish, che ha permesso di convalidare in vivo i risultati già ottenuti in vitro.

Prossimo passo sarà approfondire questa e altre possibili soluzioni terapeutiche per ripristinare la funzionalità delle cellule staminali e quindi la corretta formazione di cartilagini e l’allungamento appropriato delle ossa in chi è affetto dalla sindrome. Il lavoro è stato reso possibile dal supporto finanziario della Commissione europea sul Fondo europeo di sviluppo regionale (Erdf), del Ministero della Salute, da Fondazione Telethon e dalla fondazione francese Afm Telethon.

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