Il malore in campo, il crollo sull'erba di gioco, gli inutili soccorsi: la morte del giovane calciatore del Livorno Piermario Morosini, avvenuta lo scorso 14 aprile durante la partita con il Pescara, ha acceso i riflettori su quei disturbi congeniti del cuore che possono risultare fatali senza avvisaglie, anche in persone allenate e medicalmente controllate come gli sportivi.

«Quando parliamo di morte improvvisa ci riferiamo in realtà a un gruppo di malattie, in gran parte di origine genetica, che a un certo punto della vita possono provocare alterazioni fatali del ritmo cardiaco» spiega Silvia Priori, ricercatrice Telethon, professore dell'Università di Pavia e direttore scientifico della Fondazione Maugeri di Pavia. «Patologie ereditarie come le sindromi di Brugada e del QT lungo o del QT corto sono molto infide perché non provocano modifiche strutturali al cuore, ma soltanto alterazioni dell'elettrocardiogramma non sempre riconoscibili anche da un occhio esperto. Altre malattie ereditarie come le cardiomiopatie si rivelano solo all'ecocardiografia, un esame relativamente poco comune. Chi non sa di essere malato non è detto che faccia queste analisi e può andare incontro inaspettatamente ad arresto cardiaco. Per questo è fondamentale conoscere a fondo le basi genetiche di queste malattie, in modo da diagnosticarle precocemente e attuare le terapie preventive più adatte come l'assunzione di specifici farmaci o l’impianto di defibrillatori, veri e propri rianimatori meccanici».

Quello diretto da Silvia Priori è uno dei centri di eccellenza in Italia per lo studio delle basi ereditarie di queste malattie, a cui si rivolge anche lo stesso Coni nel caso sospetti che un atleta abbia un problema di questo tipo. «Tra i nostri pazienti ci sono diversi sportivi professionisti - spiega la ricercatrice - [...]. Al momento riteniamo che un'attività fisica regolare, svolta a puro scopo ricreativo, non abbia controindicazioni. Gli sportivi professionisti, invece, sono sottoposti a un elevato stress psico-fisico che può effettivamente aumentare il rischio di aritmie fatali: a queste persone sconsigliamo di proseguire in un’attività fisica così intensa. Quando si parla di rischio bisogna avere ben chiaro che si intende il rischio "medio" di un gruppo di persone: non è escluso che un atleta affetto da una malattia che rende controindicato lo sport agonistico decida di continuare ugualmente l'attività senza poi andare incontro a un arresto cardiaco. È il caso, per esempio, di Dana Vollmer, la campionessa di nuoto americana medaglia d’oro a Londra affetta da sindrome del QT lungo».

L'atleta deve essere informato di essere affetto da una malattia genetica e di avere un rischio di sviluppare una grave aritmia in campo: nella sua decisione deve essere pienamente consapevole dei rischi. Scelte difficili che condizionano il futuro e che proprio per questo vanno supportate con i numeri ma anche grazie ai progressi della ricerca di base: «Lo studio delle basi genetiche delle aritmie ereditarie ha cambiato radicalmente la storia naturale di queste malattie, facendone crollare la mortalità - continua Silvia Priori -. Conoscere questi dettagli molecolari ci aiuta non solo a stabilire il trattamento preventivo più adatto, ma anche a prevedere il grado di malignità e il rischio di arresto cardiaco. Sensibilizzando cardiologi, pediatri, medici di base e dello sport sull'importanza di inviare a noi specialisti tutte quelle persone che mostrino le avvisaglie di queste patologie - svenimenti, palpitazioni, malesseri durante o dopo l'esercizio fisico, casi di morte inspiegata sotto i 30 anni in famiglia - contiamo di controllare sempre di più il rischio di morte improvvisa. Nell’attesa, naturalmente, che la ricerca scientifica trovi una cura definitiva, che in futuro potrebbe arrivare dalla terapia genica».

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