All’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano si lavora per applicare a sempre più malattie la terapia genica che ha già dato risultati importanti, ottimizzando tempi e costi di sviluppo.

Francesca Tucci con il piccolo Ewen

La ricerca non si ferma mai e quello che funziona per curare una malattia può fare da volano anche per altre patologie con meccanismi simili, riducendo tempi e costi di sviluppo e offrendo così sempre maggiori opportunità di cura. È con questo spirito che i ricercatori dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano si sono messi al lavoro dopo gli importanti risultati ottenuti grazie alla terapia genica messa a punto nei loro laboratori e successivamente acquisita da un partner industriale che si è impegnato a portarla sul mercato.

Dopo l’approvazione di Strimvelis nel 2016 per la cura della rara immunodeficienza ADA-SCID, nel 2020 è stata la volta di Libmeldy, resa disponibile come farmaco in Europa per i bambini con una grave malattia neurodegenerativa, la leucodistrofia metacromatica. Questo stesso approccio, che si basa sulla correzione delle cellule staminali del sangue tramite un vettore virale, sta dando risultati promettenti anche su altre malattie per cui la sperimentazione è in corso da anni. Ma, come spiega Francesca Tucci, pediatra dell’unità ricerca clinica dell’Istituto diretta da Alessandro Aiuti, «le malattie ancora prive di cura sono tante e ci siamo chiesti come mettere a frutto quanto imparato in questi anni, per offrire nuove opportunità nel più breve tempo possibile. Abbiamo quindi individuato delle patologie che avessero dei meccanismi e dei sintomi analoghi ad alcune di quelle studiate finora, per affrontarle con un approccio “in parallelo”: useremo cioè lo stesso sistema di trasferimento genico e, per quanto possibile, gli stessi test di sicurezza ed efficacia. A cambiare sarà soltanto il gene trasferito, che naturalmente è specifico per ogni singola malattia. In questo modo contiamo di ottimizzare sia i tempi sia i costi degli esperimenti e di arrivare più velocemente alla fase della sperimentazione nell’uomo, auspicabilmente nell’arco di due-tre anni».

La scelta dei ricercatori per questa nuova “piattaforma”, che è stata presentata anche alle autorità regolatorie italiane ed europee, è ricaduta su tre rare malattie da accumulo lisosomiale, tutte caratterizzate da un deficit enzimatico che si traduce in un mancato smaltimento di sostanze tossiche: la mucopolisaccaridosi di tipo 4A e 4B e l’alfa-mannosidosi. «Questo accumulo – spiega ancora Tucci – è particolarmente grave a livello dello scheletro e porta a deformità, dolori e grave disabilità motoria. Sulla scorta dei risultati positivi già ottenuti sui primi pazienti con un’altra malattia da accumulo che colpisce gravemente anche le ossa, la sindrome di Hurler, riteniamo che il nostro approccio di terapia genica possa dare dei benefici anche nel caso di queste malattie, rare e ancora prive di un trattamento risolutivo. L’osso, infatti, è un organo molto difficile da raggiungere, perché è scarsamente irrorato dal sangue: la terapia genica, invece, permette di superare questo ostacolo e di fornire, grazie alle cellule figlie delle staminali geneticamente corrette, l’enzima proprio laddove serve a esercitare la sua azione detossificante».

In rari casi è stata tentata come cura definitiva il trapianto di midollo osseo ma, oltre a non avere una chiara indicazione terapeutica, ha anche dei limiti importanti: da una parte la difficoltà a trovare un donatore compatibile, dall’altra un’efficacia solo parziale, scarsa soprattutto a livello dello scheletro. La terapia genica avrebbe il grosso vantaggio di utilizzare le cellule del paziente stesso, che quindi non possono essere rigettate dall’organismo, e potenzialmente di fornire una quantità di enzima pari, se non superiore, a quella fisiologica.

«Speriamo che questo nuovo modello possa aiutarci a dare risposte a un numero maggiore di pazienti in attesa di cura, nel più breve tempo possibile – continua Francesca Tucci, che è arrivata all’SR-Tiget nel 2016 dopo la laurea in medicina e la specializzazione in pediatria all’Università di Napoli che ha previsto anche un periodo all’ospedale Gaslini di Genova e in Uganda come medico in formazione. «Ho sempre voluto occuparmi di malattie del sangue dei bambini, inizialmente soprattutto tumori come linfomi e leucemie. Poi a Milano ho trovato la mia dimensione ideale, dove si fa vera ricerca traslazionale: dal bancone del laboratorio al letto del paziente e viceversa, mettendo a punto terapie innovative che possono davvero restituire una nuova opportunità di vita a bambini con malattie gravi e potenzialmente fatali. Ricordo ancora come se fosse ieri la prima volta in cui abbiamo infuso le cellule staminali corrette con la terapia genica in un bambino con la sindrome di Hurler, così come il difficile confronto con quei genitori a cui abbiamo dovuto dire che non potevamo curare il loro figlio. Anche la terapia genica ha dei limiti e quando la malattia è in fase troppo avanzata, soprattutto se c’è una compromissione del sistema nervoso, non può cambiarne il decorso. Speriamo che un giorno lo screening neonatale ci consenta di diagnosticare tutte queste malattie già alla nascita e di poter intervenire tempestivamente, senza lasciar indietro nessuno. E comunque, anche quando diamo le risposte che non vorremmo mai dare, sappiamo che la ricerca va sempre avanti e lascia sempre aperto uno spiraglio: non è mai detta l’ultima parola».

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