Emofilia: un obiettivo è rendere le terapie sempre più efficaci

Uno dei principali limiti della terapia sostitutiva della malattia genetica del sangue è la formazione di anticorpi inibitori diretti contro il fattore della coagulazione ricombinante, che di fatto ne annullano l’effetto terapeutico.

Il 17 aprile ricorre in tutto il mondo la Giornata mondiale dell’emofilia, malattia genetica dovuta al difetto in uno dei fattori coinvolti nella coagulazione del sangue e caratterizzata da emorragie più o meno gravi a seguito di traumi, ferite, operazioni chirurgiche, oppure emorragie interne apparentemente spontanee. Si stima che nel mondo siano 400mila le persone affette da emofilia, oltre 5000 in Italia. Se ne distinguono due forme: la A in cui manca il fattore VIII e che è la più frequente (80 per cento dei casi) e la B in cui manca il fattore IX.

Non esiste ancora una cura risolutiva per questa malattia, ma è possibile tenerla sotto controllo grazie all’assunzione periodica dei fattori mancanti, che oggi è possibile ottenere per via biotecnologica. Nel tempo la qualità della vita delle persone con emofilia è decisamente migliorata, ma la ricerca ha continuato ad andare avanti sia per sviluppare una terapia risolutiva, sia per cercare di risolvere alcune limitazioni importanti dei trattamenti attualmente disponibili. La Fondazione Telethon ha dato un contributo significativo alla ricerca sull’emofilia: oltre 3,6 milioni di euro che hanno permesso di finanziare 14 progetti su diversi aspetti.

Attualmente uno dei principali limiti della terapia sostitutiva è la formazione di anticorpi inibitori diretti contro il fattore della coagulazione ricombinante, che di fatto ne annullano l’effetto terapeutico: questo si verifica nel 30 per cento dei casi di emofilia A e nel 10 per cento dei casi di emofilia B.

All’Università di Perugia, Francesca Fallarino studia da molti anni questo particolare aspetto, anche grazie a fondi Telethon: «per il sistema immunitario di questi pazienti i fattori della coagulazione somministrati dall’esterno sono estranei alla stregua di virus e batteri, quindi si attiva per neutralizzarli. La terapia sostitutiva “classica” risulta così del tutto inefficace e bisogna ricorrere ad alternative, che però sono in grado di risolvere solo parzialmente il problema, o per certi pazienti non sono proprio disponibili. Da qui la necessità di trovare nuove strade per contrastare questa risposta immunitaria neutralizzante».

In particolare, Fallarino e il suo team hanno individuato le specifiche cellule immunitarie che contribuiscono a far riconoscere il fattore VIII come un agente estraneo, le cellule dendritiche, le stesse che si sono specializzate per “segnalare” batteri e virus ad altre cellule del sistema immunitario in modo da indurle a reagirvi contro. Inoltre, un sottotipo particolare di queste cellule (dette regolatorie) sono coinvolte anche in un meccanismo opposto, quello della tolleranza immunitaria, che invece “istruisce” il sistema immunitario a non reagire contro le strutture del nostro organismo. «Grazie a studi effettuati nel modello murino di emofilia A e in cellule del sangue di pazienti che sviluppano inibitori, abbiamo individuato una molecola con attività immuno-regolatoria che risulta essere prodotta in quantità inferiore rispetto al normale e che invece se somministrata insieme al fattore VIII mancante non solo è ben tollerata, ma è in grado di inibire la produzione di anticorpi neutralizzanti». Peraltro lo studio dei casi rari in cui alcuni soggetti sviluppano questi anticorpi neutralizzanti oggi può rivelarsi molto utile nella ricerca di strategie efficaci contro COVID19: sfruttati “al contrario” potrebbero infatti stimolare il sistema immunitario a sviluppare una risposta che neutralizzi il nuovo coronavirus senza creare danno all’organismo.

In attesa che questi risultati siano applicabili nei pazienti, il problema dello sviluppo di inibitori rimane. Come spiega Fallarino, «l’unico approccio attualmente accettato in ambito clinico per quei pazienti emofilici che abbiano sviluppato inibitori è quello che induce immunotolleranza: in pratica si intensifica la frequenza e il dosaggio delle infusioni di fattore VIII, anche per lunghi periodi, così da indurre il sistema immunitario a riconoscerlo e a non produrre più gli inibitori. Il trattamento è decisamente impegnativo per il paziente e la sua famiglia, può durare anche un paio d’anni, ma è efficace nel 60-80% dei casi, con una variabilità che ancora non riusciamo a spiegare. Proprio per cercare di chiarire questo aspetto abbiamo avviato, anche con il supporto dell’Associazione italiana centri emofilia (Aice), uno studio multicentrico che coinvolgerà oltre 30 pazienti sottoposti al trattamento per indurre immunotolleranza provenienti da 6 differenti centri clinici italiani. A partire dai campioni di sangue e di cellule di questi pazienti andremo alla ricerca di marcatori genetici e immunitari che correlino con il successo o meno del trattamento già nelle prime fasi. Inoltre, dall’analisi della risposta immunitaria attivata da questi pazienti verso il fattore VIII esogeno fornirà informazioni importanti per progettare delle nuove strategie farmacologiche di immuno-regolazione».

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