Intervista a Maria Ester Bernardo dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano, nonché volto dell’ultimo spot istituzionale della Fondazione.

«Quando mi hanno offerto la possibilità di lavorare all’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica ho sentito di essere arrivata nell’unico posto che poteva accogliere la mia doppia anima di medico e ricercatore. Mi sento molto fortunata, da qualsiasi altra parte probabilmente avrei continuato a fare “solo” il medico: un mestiere che amo, ma almeno tanto quanto quello del ricercatore clinico». Parola di Maria Ester Bernardo, responsabile dell’Unità di Trapianto di midollo osseo pediatrico dell’Ospedale San Raffaele di Milano e coordinatore clinico dell’Unità di ricerca clinica pediatrica dell’SR-Tiget. Dopo essersi “fatta le ossa” al fianco di Franco Locatelli, uno dei massimi esperti al mondo nel campo dell’onco-ematologia pediatrica, ha avuto anche la possibilità di fare un’esperienza all’estero, a Leiden (Olanda).

«Ho iniziato a lavorare all’SR-Tiget alla fine del 2014. Quando sono arrivata conoscevo poco della Fondazione Telethon, ma presto ho capito che non era soltanto un ente finanziatore come quelli con cui avevo interagito fin a quel momento. È qualcosa di più, una vera e propria squadra. Quello del medico è già un lavoro che presuppone una motivazione ad aiutare gli altri, ma all’interno della Fondazione Telethon ci si sente parte di un progetto importante, con una finalità grande. Un progetto che ha prospettive all’infinito e non dovrebbe esaurirsi mai, al di là di noi singoli».

Al suo arrivo, Maria Ester ha contribuito innanzitutto a rafforzare l’attività di trapianto di midollo allogenico, cioè da donatore, all’interno dell’Unità di ricerca clinica diretta da Alessandro Aiuti, vicedirettore dell’SR-Tiget: spesso infatti è questa l’opzione terapeutica che si può offrire a bambini con malattie genetiche rare che, per varie ragioni, non possono sottoporsi ai diversi protocolli di terapia genica messi a punto dall’Istituto.

«Ricordo ancora il primo bambino che abbiamo curato in questo modo: era egiziano, con una grave forma di malattia granulomatosa cronica, una rara immunodeficienza genetica. Quando lo abbiamo ricoverato per un’infezione che gli aveva compromesso quasi del tutto i polmoni era così sottopeso che lo abbiamo portato in neonatologia, nonostante avesse quasi un anno. Il trapianto era la sua unica possibilità di sopravvivere: per fortuna la sorella maggiore è risultata compatibile e, nonostante le condizioni di partenza difficilissime, è riuscito bene. Anche le condizioni familiari non erano delle più facili, eppure “Salamino” - come lo avevamo soprannominato - ce l’ha fatta, è cresciuto e sta bene. Ogni volta che torna per il controllo annuale, io e la sua mamma ci guardiamo, ci abbracciamo e ci capiamo senza bisogno di parole. L’interazione continua con queste famiglie è un’esperienza che mi arricchisce molto, mi sento onorata quando condividono le loro storie personali, spesso molto complicate se non drammatiche».

Già nel 2015, però, Maria Ester ha raccolto una nuova sfida: quella di portare alla fase di sperimentazione clinica sull’uomo un altro protocollo di terapia genica in corso di studio nei laboratori dell’istituto da diversi anni, quello per la mucopolisaccaridosi di tipo 1H. Insieme a Bernhard Gentner, che invece si è occupato di portare a termine gli esperimenti preclinici, è riuscita nell’intento: lo studio è effettivamente partito nel 2018 con il trattamento del primo paziente e i primi risultati sono stati così positivi da meritare le pagine della più importante rivista al mondo di ricerca clinica, il New England Journal of Medicine.  

«Anche se ognuno di noi segue un progetto di ricerca specifico, i piccoli pazienti che trattiamo con la terapia genica sono davvero “di tutti”. È indubbio però che mi sento particolarmente legata alle famiglie degli 8 bambini con MPS1H che hanno preso parte allo studio clinico che ho seguito in prima linea. Le loro storie sono spesso molto difficili anche al di là della malattia, che è già molto impegnativa: come nel caso di Arshida, una bambina iraniana che ha ricevuto la terapia genica alla fine del 2019. I suoi genitori, vista la situazione critica nel loro Paese, hanno deciso loro malgrado di non tornarci più dopo l’ultimo controllo qui a Milano. Hanno lasciato la famiglia e un buon lavoro e anche se non potevamo fare nulla per aiutarli abbiamo dato loro fiducia: sapere che ci saremmo presi cura di Arshida li ha fatti sentire a casa. Hanno condiviso il loro progetto di vita con noi e questo è un regalo prezioso».

Sono tante le sfide ancora aperte: sapere se queste terapie continueranno a funzionare nel tempo, se potranno essere offerte a sempre più bambini e applicate anche ad altre patologie al momento incurabili. Ma il pensiero oggi va anche a quei bambini che Maria Ester e i suoi colleghi hanno incontrato senza poter fare nulla per loro. «Quando si fa ricerca clinica ci sono momenti in cui noi medici abbiamo le mani legate e non abbiamo la possibilità di trattare bambini che “sulla carta” potrebbero avere una chance. Questo può accadere per vari motivi, tra cui il fatto che il paziente non presenta i cosiddetti “criteri di inclusione”: un termine che può apparire freddo e burocratico, ma che di fatto comprende tutti quei parametri che ci consentono di somministrare una terapia nuova e sperimentale con un buon margine di sicurezza e con la possibilità di ottenere dati validi anche per gli altri pazienti. Ma di fronte a genitori disperati questi principi, pur razionali, sono duri da accettare. E io non potrò mai dimenticarli, nessuno escluso».

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