Alessio Cantore, protagonista della ricerca sull’emofilia

Alessio Cantore, classe 1982, fin da piccolo sognava di fare lo scienziato. Passione alimentata prima da alcuni film di fantascienza, poi ai tempi del liceo dai progressi nel campo della ricerca biomedica di cui sentiva parlare: «sequenziamento del genoma umano, clonazione, ingegneria genetica». E così, quando è arrivato il momento di scegliere il percorso universitario, non ha avuto dubbi: laurea in biotecnologie all’Università di Bologna e dottorato in biologia molecolare e cellulare all’Università Vita Salute San Raffaele di Milano. «Perché in fondo ero convinto, e lo sono tuttora, che il progredire delle conoscenze in questo ambito si possa tradurre in un miglioramento della medicina e in una prospettiva concreta di cura per tante malattie genetiche». E oggi l’idea di poter alleviare le sofferenze di chi sta male traducendo nuove scoperte in nuove terapie è un grosso stimolo a fare sempre meglio.

All’Istituto San Raffaele-Telethon per la terapia genica (SR-Tiget) di Milano, con la sua attività di ricerca Cantore spera di riuscire a cambiare la storia dell’emofilia, malattia che a causa di un difetto genetico manda in tilt il processo di coagulazione del sangue esponendo chi ne è affetto al rischio di emorragie a livello di qualsiasi organo, anche spontanee, che se non trattate possono compromettere pesantemente la vita.

«La terapia genica - dice - è una nuova forma di medicina che mira a correggere il difetto genetico alla base della malattia e noi stiamo cercando di applicare questa strategia terapeutica a questa malattia ereditaria del sangue». Il suo obiettivo è riuscire a inserire nell’organismo dei pazienti una versione funzionante del gene che è difettoso, «direttamente nel fegato, perché è l’organo responsabile della produzione dei fattori della coagulazione che sono carenti o mancanti in chi ha l’emofilia», spiega Cantore. E per vincere questa sfida, sta allora cercando di mettere a punto dei “veicoli” per trasferire il gene terapeutico in modo sempre più sicuro ed efficace. «Si tratta di virus buoni: per l’esattezza di vettori lentivirali, derivati cioè dal virus Hiv, ma non più infettivi». Resi innocui, sono in grado, tramite iniezione endovenosa, di veicolare alle cellule del fegato i geni utili e necessari per produrre i fattori della coagulazione che sono alleati preziosi delle piastrine, perché le aiutano a radunarsi, quando e dove necessario, per fermare un'emorragia. In pratica, è come se si fornisse all’ingranaggio un nuovo libretto di istruzioni per funzionare a dovere e riuscire così a produrre tutto il necessario affinché il sangue non faccia più fatica a coagulare.

«Siamo in fase avanzata di ricerca preclinica - spiega - e abbiamo ottenuto dati molto incoraggianti in laboratorio e, nonostante sia necessaria sempre la massima cautela, siamo molto fiduciosi». Raggiungere il traguardo significherà rivoluzionare la gestione di questa malattia e la vita dei pazienti, svincolandoli dalla routine delle iniezioni da fare per tutta la vita. Perché in pratica, verrebbe risolto a monte il problema, correggendo il difetto genetico una volta e per sempre.

«C’è ancora della strada da fare, ma non siamo lontani dalla sperimentazione clinica sui pazienti». E lo dice ricordando che si tratta di una sfida che stanno affrontando diversi gruppi di ricerca nel mondo, e conclude spiegando: «Alcuni stanno già testando altri vettori virali e le sperimentazioni stanno facendo emergere prospettive incoraggianti e alcune limitazioni che noi stiamo cercando di affrontare: per esempio la nostra strategia terapeutica non è applicabile solo agli adulti, ma anche ai pazienti in età pediatrica».

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