Stefano: “Mio fratello, il miglior alleato per andare lontano”

Essere fratelli - esserlo davvero - fa parte di quei miracoli di cui esiste evidenza terrena. Per esempio in Alessandro e Stefano, venuti al mondo uno (tre anni) dopo l’altro, da una famiglia che aveva già accolto Luca. Una famiglia che ai tempi mai avrebbe immaginato il giro che avrebbe preso di lì a poco la storia che stavano creando.

Famiglia di Stefano che affronta la distrofia muscolare di Duchenne
Stefano insieme alla sua famiglia

Sono infatti ancora solo due bambini, Alessandro e Stefano quando giocando nelle campagne di Calvello in uno - il più piccolo - qualcosa inizia a non funzionare come dovrebbe.

La casa resta la stessa, ma ci entra dentro un nome fino ad allora sconosciuto, distrofia muscolare di Duchenne, e da quell’improvviso dolore arriva una sedia a rotelle, ma anche dieci mani una sopra l’altra di un padre, una madre e tre figli tutti riuniti intorno a un tavolo: «Dobbiamo affrontare tutto insieme».

Così le crisi, anche le più dure, vengono superate e arriviamo a oggi, con Alessandro che sta per laurearsi in Medicina e Stefano in Scienze del Servizio Sociale.

Perché proprio queste facoltà?

Stefano: «La disabilità è la mia vita e il mio impegno. Lo è aiutare gli altri, anche se devo essere aiutato io. Non posso con le mani? Ma posso con la testa, specializzandomi da assistente sociale. Tesi in autunno, sulle leggi che ci riguardano, sul nostro diritto a non avere più barriere».

Alessandro: «Non è la naturale conseguenza dell’esperienza avuta con Stefano, ma dei compiti in classe di prima elementare, dei primi temi in cui scrivevo che, da grande, mi sarebbe piaciuto diventare o prete - che cura le anime - o dottore - che cura i corpi. Sono “dotato”. Anche con Stefano, ho sempre avuto la freddezza che mi consentiva di intervenire, la lucidità di guardare la situazione e cercare un rimedio nei momenti difficili, trovare una soluzione».

La distrofia muscolare di Duchenne, spiegatela a chi non la conosce.

Stefano: «È una malattia neuro-degenerativa molto grave, che uccide prima gli arti inferiori, poi superiori, il tessuto muscolare scheletrico, i muscoli respiratori e cardiaci. Grazie alla ricerca, la qualità di vita è aumentata, e anche le sperimentazioni. Ma non c’è una cura, porta alla morte, e quanto più i miei genitori invecchieranno tanto più sarà per me impegnativo raggiungere il centro clinico Nemo al Gemelli di Roma».

Alessandro: «Una croce. Sì pesante, brutta, incurabile, come disse mio padre una volta “qualcosa da non augurare mai neanche al peggior nemico”, ma - da cristiano e cattolico – credo non sia soltanto dolore che toglie, ma che ti dà anche qualcosa in più: come la scoperta di una forza interiore, lo stimolo di ripetersi anche nei giorni più neri che ne vale la pena sempre e comunque».

Cosa sono per te le barriere?

Stefano: «Quelle culturali mi spaventano più di quelle architettoniche ».

Alessandro: «Qualcosa che, sono fiducioso, supereremo».

La tua opinione sui ricercatori.

Stefano: «Bisogna credere a loro più che ai politici. Hanno dati certi, non fanno discorsi campati per aria». 

Alessandro: «Persone nobili d’animo: la speranza che nutro in quel che fanno è la stessa che danno loro a chi vive una situazione come la nostra».

«Sapere che c’è qualcuno che sta cercando una soluzione al tuo problema, e ha a cuore il tuo presente e il tuo futuro, è non essere soli».

Alessandro, fratello di Stefano

Cosa significa essere fratelli.

Stefano: «Nella sfortuna, sono stato fortunato: con Alessandro ci assomigliamo, abbiamo le stesse passioni. La musica, per esempio: la prima canzone cantata insieme è stata In bilico, dei Negramaro. Lo ricordo come fosse adesso: ancora camminavo. E poi mi appoggia in tante cose, anche nella mia idea di creare una struttura turistica per persone con disabilità: è un progetto ambizioso, lo so, ma che meraviglia sarebbe?».

Alessandro: «Stefano e io eravamo pazzi per le macchine agricole. Nei negozi di giocattoli compravamo solo trattori e zappe. Non c’è albero di campagna che non abbiamo scalato fino all’ultimo ramo, non c’è capanna di foglie che non abbiamo costruito, e quella sintonia d’avventura, anche quando la sua capacità deambulatoria è venuta meno, non è mai scomparsa, si è solo trasformata. A calcio, per esempio, ha iniziato a mettersi in porta o a fare gol con i colpi di testa. No, la malattia non ci ha cambiati».

Per cosa vi dite «grazie».

«Alessandro è stato il primo ad imparare, subito, che “disabile” non si dice: meglio mettere davanti “persona”. “Persona con disabilità”».

Stefano

Alessandro: «Per avermi insegnato che il verbo “fare” non si declina mai al passato: è sempre un presente o un futuro».

I momenti più difficili.

Stefano: «Le crisi respiratorie. Ne ebbi una in particolare molto forte, da cui sono stato salvato grazie all’elisoccorso. La malattia non si accetta mai. O meglio, o l’accetti o l’accetti».

Alessandro: «Non sai quando arrivano, quando aspettartelo. E non sai come, ma sai che ti metteranno spalle al muro, in una situazione in cui apparentemente non puoi fare niente, davanti a scelte per cui non hai libretto d’istruzioni: la malattia mostrerà il suo vero volto. Poi c’è il quotidiano: io da fuori sede quando torno lo noto che Stefano muoveva di più la mano e adesso meno, che Stefano giocava a calcio sulla sedia a rotelle e adesso non più».

La tua più grande paura.

Stefano: «Di peggiorare. Ma come diceva Falcone, chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola».

Alessandro: «Che mio fratello abbia bisogno e io non possa esserci perché distante».

Il tuo più grande sogno.

Stefano: « L’uso dei piedi. Calciatori che donano a Telethon, con quello che guadagnano. Cantare in uno stadio con Jovanotti, Vasco Rossi, Il Volo».

Alessandro: «Cantare in uno stadio Io vagabondo dei Nomadi, la canzone che più abbiamo cantato insieme. Ma il massimo sarebbe poter portare Stefano ovunque vada io».

Che cos’è l’amore.

Stefano: «È quello che c’è quando si sta bene. È dire la verità».

Alessandro: «Lo diceva già Platone: di amori ne esistono diversi, e non in conflitto. Per me Stefano è un emisfero, la mia ragazza Giorgia un altro, i miei un altro ancora».

Amate il verso di Niccolò Agliardi: «Io non ho finito (perché ho sete ancora)». Di cosa.

Stefano: «Di continuare a strappare vita alla malattia».

Alessandro: «Di andare fuori a mangiare una pizza e poi al cinema. Ah no, cambio di programma, meglio farla a casa e il film vederlo in tv che Stefano è stanco. E va bene lo stesso. Il segreto è fare tutto sempre quel che ci è possibile, al limite del possibile, come quando ci arrampicavamo, bambini, insieme».

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