Scrive per noi Michele, nato con una rara malattia genetica che colpisce gli occhi, la sindrome di Stargardt.

Michele, campione paralimpico di karate

Ciao, sono Michele, ho 20 anni e voglio raccontarvi la storia della mia metamorfosi: non sto parlando di un semplice cambio di scuola o di casa, ma di una vera e propria rivoluzione di tutta la mia esistenza. Avevo 12 anni e tanti sogni su ciò che avrei fatto della mia vita, quando la sindrome di Stargardt, una rara malattia genetica che colpisce gli occhi, ha iniziato a “disturbare” le mie abitudini quotidiane.

All’inizio non raccontavo nulla ai miei genitori dei mal di testa, della vista annebbiata e delle difficoltà a leggere. Volevo farcela da solo e non volevo vedere le espressioni preoccupate dei miei e delle mie due sorelle, ma non era proprio possibile.

«È stato un vero cataclisma conoscere la diagnosi per me e per la mia famiglia, ma ho fatto un patto con mia madre: costruire la mia strada, la mia vita, a modo mio». 

Michele

Sono un tipo molto ambizioso, devo ammetterlo. Sono campione italiano paralimpico di karate, ho conquistato la mia medaglia d’oro nel maggio del 2017. Ho lavorato sodo per arrivarci, e finalmente l’anno scorso ho ottenuto la mia ambita cintura nera, superando un esame meticoloso da parte dei giudici.

Tre anni fa ho intrapreso la disciplina dello sci nautico, grazie all’incoraggiamento della mia famiglia e del campione mondiale Daniele Cassioli, anche lui colpito da una malattia genetica della vista, la retinite pigmentosa, che mi ha fatto capire che si poteva osare anche senza vedere. Potevo fare molto altro, potevo davvero puntare a grandi obiettivi. È stato uno stimolo importante, un turbo per la mia autostima.

A giugno mi sono diplomato al liceo di scienze umane all’Istituto De Andrè a Brescia. Ora punto all’università: la prossima primavera inizierò gli studi nella facoltà di scienze motorie sportive, per poi proseguire con la laurea in fisioterapia. Nel frattempo, passo dal tatami del karate allo sci nautico, dal diamante del baseball in cui mi sento libero da qualsiasi ostacolo all’adrenalina del rally. Ultimamente ho anche iniziato a tirare di scherma, per provare nuove emozioni.

Ho continuato a vedere fino a due anni fa, fino a quando la malattia ha fatto calare il buio sui miei occhi. Quando ho perso la vista ho cercato di essere ottimista, però la gran parte del lavoro l’hanno fatta i miei genitori: mi hanno fatto capire che, anche se il percorso sarebbe stato più accidentato, la direzione rimaneva la stessa. E così ho fatto, sto facendo e continuerò a fare sapendo anche che tanti ricercatori continuano a lavorare ogni giorno per trovare una cura a patologie come la mia. Il mio motto è

«Non provo ad insistere ma insisto a provare».

Oggi penso che l’unico limite alle cose che possiamo realizzare è la nostra immaginazione. L’ho visto fare tante volte, da atleti eccezionali che come me hanno una malattia rara. Io mi ispiro a loro e quel limite lo supero con i miei sogni e con tutto l’impegno che metto nelle cose, almeno finché sarò io, e non la mia malattia, a decidere della mia vita.

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