Sono Stefano, ho 24 anni e vivo a Ferrara da tutta la vita, anche se sono nato a Roma. Sono sempre stato un ragazzino vivace, attivo e solare; uno di quelli che dalla mattina corre e urla, per poi crollare nel letto la sera, esausto.

Stefano, in arte J-Bisio

Lo sport e la musica mi hanno riempito le giornate. Devo riconoscere di aver avuto sempre tutto, grazie alla mia famiglia e a tutti gli amici che col passare del tempo sono diventati parte del mio nucleo famigliare.

Lo sport, soprattutto, è sempre stato una grande passione per me. È un esercizio mentale oltre che fisico, mi ha forgiato il carattere e mi ha sempre aiutato a socializzare, anche se non è che ne avessi proprio bisogno. Verso i 17 anni, visto che sono sempre stato un ragazzo magro, avevo deciso di iscrivermi in palestra per avere qualche muscolo in più. In quel momento mi sono accorto che qualcosa non andava. Era il braccio che non rispondeva come avrebbe dovuto ma non riuscivo a spiegarmi il perché.

Dopo un anno trascorso a farmi visitare da ogni sorta di dottore, finalmente siamo arrivati ad una conclusione: ho la distrofia facio-scapolo-omerale, proprio come mia mamma e mia nonna, ma in una forma più grave rispetto alla loro. È una malattia genetica, mi spiegano, ce l’abbiamo nel Dna e non ci possiamo fare proprio niente.

«Lì per lì la mia reazione è stata semplicemente di non dare peso alla cosa, di continuare a vivere facendo finta che la malattia non esistesse, così da non doverla affrontare ».

Stefano

Ma è stato un grande errore. Col passare del tempo quello che avevo accantonato e sottovalutato si è fatto avanti e mi ha cambiato la vita. Come avrei potuto continuare ad ignorare qualcosa che non mi permetteva di correre, dopo un’infanzia da sportivo? Come avrei potuto far finta di non vedere che mi aveva completamente prosciugato le forze nelle braccia e nelle gambe?

«Ho pensato che la distrofia fosse un mostro, un male che mi bloccava ogni sogno, come una prigione ».

Stefano

Mi chiedevo perché proprio io stavo perdendo il controllo di me stesso. Ma così stavo aiutando questo “mostro” a mangiarmi ogni muscolo che mi era rimasto.

Come ogni essere umano, quando si tocca il fondo si comincia a dare il meglio di sè, e così mi sono finalmente fermato. Mi sono preso il mio tempo per ragionarci su. Ho capito che finché avrei pensato alla malattia come un male, non sarebbe cambiato nulla. Quindi ho cominciato a trattare la mia malattia come fosse un coinquilino, la mia parte debole da portare sulle spalle fino al traguardo, perché volente o nolente, insieme dobbiamo vincere. E poi so di avere una grande alleata dalla mia parte, la ricerca, pronta a spronarmi e a darmi la giusta motivazione per arrivare fino in fondo.

«Ora sta cambiando tutto, perché ciò che credevo un problema mi ha donato tante cose, mi ha fatto crescere e maturare, mi ha reso ciò che volevo essere da piccolo: un gladiatore ».

Uno che non si ferma mai davanti a nessun ostacolo, uno che non ha paura, uno che nonostante qualsiasi ferita gli venga inflitta, si rialza e combatte. Ora l’ho capito: i guerrieri sono uomini forti, ma i muscoli non c’entrano proprio nulla.

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